Bambine e bambini speciali/ Bisogni educativi “normalmente speciali”

marzo 20, 2014 § 1 Commento

 claudio berretta

éL’anno scolastico 2012/2013 ha visto due grandi innovazioni normative: le nuove Indicazioni Nazionali per il Curricolo e la Direttiva Ministeriale del 27 dicembre 2012, seguita dalla Circolare Ministeriale n° 8 del 6 marzo 2013, sugli Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali (BES).

Come spesso succede nella scuola italiana, per quanto riguarda la normativa sui BES, non si sono cercati il coinvolgimento e la partecipazione degli insegnanti e non sono stati attivati adeguati percorsi formativi che potessero concretizzare, nella realtà quotidiana delle classi, lo spirito delle disposizioni normative.

Questo ha determinato, in molti casi, incomprensione, rifiuto o applicazione meramente formale delle innovazioni, inducendo alla compilazione dei documenti richiesti con lo spirito di chi adempie ad uno sterile dovere burocratico.

La circolare n. 8/2013 ha quindi suscitato molte perplessità. In primo luogo per il fatto di non essere stata introdotta con modalità adeguate di condivisione all’interno delle scuole. In secondo luogo perché sospettata di essere un modo per favorire il passaggio di molti allievi, attualmente considerati con disabilità, ad altre categorie di bisogni educativi speciali, allo scopo di ridurre il numero degli insegnanti di sostegno. In terzo luogo perché un’eccessiva tendenza alla classificazione di difficoltà che dovrebbero essere normale ambito della ricerca e della pratica pedagogica, potrebbe condurre verso la medicalizzazione del lavoro delle scuole.

 

Per quanto concerne il primo punto si tratta di un problema che purtroppo caratterizza molti dei tentativi di cambiamento della scuola italiana e che spesso ne determina  il parziale fallimento. I processi partecipativi sono in genere percorsi più efficaci di quelli imposti dall’alto e a maggior ragione per quanto riguarda la scuola: considerando il ruolo determinante degli insegnanti solo le riforme che li vedono protagonisti nelle fasi di progettazione e in quelle attuative possono determinare effettivi cambiamenti, ma purtroppo raramente succede. Anche in questo caso le scuole hanno visto arrivare disposizioni normative importanti senza essere state consultate, senza una formazione adeguata e con richieste di applicazione in tempi improbabili. Per una realizzazione efficace di quanto previsto nella circolare sarebbe opportuno porre rimedio a queste lacune.

 

In merito al secondo punto è forte – e forse fondato – il sospetto che, attraverso disposizioni normative che si presentano come strumenti per migliorare il livello di inclusività delle scuole, si punti all’ennesimo taglio di risorse ad una scuola già deprivata del minimo essenziale di sopravvivenza, riducendo la presenza degli insegnanti di sostegno. Il forte aumento del numero delle certificazioni degli ultimi anni ha indotto a pensare ad una richiesta impropria di insegnanti di sostegno per affrontare situazioni non considerabili effettive condizioni di disabilità, ma d’altra parte, se effettivamente questo si è verificato, è probabilmente anche l’effetto secondario dell’assenza di compresenze o di figure educative di supporto, per affrontare le numerose e diverse situazioni di difficoltà che – normali o speciali che siano – richiedono personalizzazioni ingestibili efficacemente da un insegnante solo, in classi sovraffollate, per quanto preparato e motivato possa essere. Qui emerge un’importante criticità delle recenti disposizioni: si individuano dei bisogni educativi speciali, ma non le risorse per farvi fronte: compresenze di insegnanti per attività di laboratorio o di recupero e potenziamento, educatori, esperti in arte-terapia, animatori sportivi con formazione educativa.

Ciò non significa dimenticare che devono essere prima di tutto gli insegnanti curricolari a prendersi carico della realizzazione di una didattica inclusiva, senza delegare ad altre figure la loro responsabilità, ma l’accumularsi di situazioni di difficoltà o la presenza di allievi che hanno bisogno di essere seguiti a volte individualmente, rendono necessarie compresenze che possono anche operare nel contesto della classe, senza emarginare chi ha bisogno di aiuto portandolo fuori dall’aula o creando gruppi di recupero emarginanti.

Spesso è comunque necessaria la figura dell’insegnante di sostegno, in quanto professionista in grado di interfacciarsi efficacemente con l’istituzione scuola e gli altri insegnanti, anche in virtù della sua posizione di contitolare della classe. Il concetto di contitolarità della classe, presente nell’art. 13, comma 6 della Legge 104/92, è strategico in questo senso e non può essere applicato ad altre figure educative che, seppur molto importanti per le specifiche competenze che possono apportare, non possono sostituire l’insegnante di sostegno nel suo ruolo di coordinatore del percorso di costruzione di una classe inclusiva, rivolta all’integrazione dei propri componenti, attraverso la valorizzazione delle diversità in essa presenti. Per questo “l’evoluzione dell’attuale figura dell’insegnante di sostegno” non può passare dal ritorno agli organici ordinari. come proposto nel volume di Associazione Treelle, Caritas Italiana, Fondazione Agnelli[1].

Viene inoltre proposto il passaggio del 20% circa degli attuali insegnanti di sostegno ad un ruolo di consulenza. Penso però che sarebbe piuttosto utile una consulenza “sul campo”, ben diverso da quello proposto nel volume su citato che prevede la presenza di specialisti senza ore di lavoro didattico diretto nelle classi la cui “dimensione consulenziale tecnica ad alta competenza” porterebbe probabilmente ad una loro estraniazione dalla vita delle classi e ad una perdita della loro credibilità di fronte ai colleghi.

Gli insegnanti non hanno bisogno di “alti specialisti” che non sanno più cosa significa vivere quotidianamente la fatica dello stare in classe. Hanno invece bisogno di confrontarsi tra loro, condividendo il loro sapere teorico e pratico in una dimensione di comunità di pratica e di apprendimento, aiutati da consulenti e formatori che siano insegnanti ancora in servizio attivo, consapevoli delle difficoltà presenti, perché le vivono in prima persona, e con idee chiare sulla fattibilità concreta delle strategie che propongono. Questa forma di “peer tutoring” è stata realizzata in un servizio di consulenza da parte dei servizi per le necessità educative speciali dell’Ufficio Scolastico Provinciale di Torino, per circa dieci anni, fino all’anno scolastico 2011/2012, con riscontri molto positivi ed attualmente, purtroppo, non più attivato.

 

Per quanto riguarda il terzo punto occorre tenere in considerazione il fatto che ogni classificazione può essere utile come modello interpretativo e chiarificatore della realtà, purché non diventi un elemento più importante della realtà stessa. La mappa infatti è importante per orientarsi, ma “non è il territorio”, come sottolineava Korzybski.

Il riconoscimento dei bisogni educativi speciali può così essere utile per riconoscere più facilmente le situazioni di difficoltà e individuare le strategie più efficaci, ma non bisogna dimenticare che la realtà è fatta di persone ognuna diversa dall’altra e che ogni allievo ha dei propri specifici bisogni educativi, che devono essere considerati nella quotidianità del lavoro degli insegnanti e in questo senso sono speciali e insieme normali. Peraltro anche l’ICF, alla base di queste disposizioni normative, è un sistema di classificazione, ma il suo scopo non è quello di inserire tutte le difficoltà umane tra le competenze della medicina, anzi, tenta piuttosto di considerare la condizione umana  nelle sue diverse dimensioni: biologica, psicologica e sociale. Le risposte alle situazioni di difficoltà possono così essere concepite come azioni sistemiche che non insistono solo su alcuni aspetti del singolo individuo, ma intervengono sulla persona concepita nella sua globalità e sull’ambiente fisico e sociale di riferimento, con benefici per tutti. L’inserimento quindi nella categoria dei BES di molte difficoltà di diversa origine e con caratteristiche non necessariamente attinenti la diagnosi medica, credo possa essere utile per  l’acquisizione di una più diffusa consapevolezza  delle difficoltà e dei bisogni educativi esistenti, purché questa consapevolezza sia accompagnata da quella relativa all’importanza del ruolo della pedagogia nell’affrontare  le difficoltà e rispondere ai bisogni educativi, senza necessariamente fare affidamento su interventi medici, ma chiedendo piuttosto una maggiore presenza di insegnanti ed educatori. In quest’ottica è possibile progettare risposte educative a situazioni di difficoltà che risultino utili non solo all’allievo “speciale”, ma anche a tutti i suoi compagni, scoprendo in tal modo che un bisogno educativo che si pensava speciale è in realtà condiviso. Questo è il senso del titolo di questo articolo e del mio ultimo libro[2], così come delle situazioni raccontate nel volume Professore… lei è felice?[3]

Per una pedagogia inclusiva

I bisogni educativi speciali  si scoprono normali quando adottando metodi e strategie per affrontarli miglioriamo le possibilità di apprendimento di un’intera classe, facendo emergere i limiti di una lezione frontale e trasmissiva, rendendo evidenti i vantaggi per tutti di una corretta mediazione nel processo di apprendimento e di metodi ispirati ai principi della partecipazione attiva e della cooperazione nella costruzione autonoma del proprio sapere, che permettano di scoprire e produrre sapere invece di riprodurre  soluzioni e risposte già fornite da altri. Quindi attività laboratoriali e apprendimento cooperativo risultano essere due elementi strategici per una didattica inclusiva che non si caratterizza come la didattica per “gli inclusi”, per chi ha difficoltà, magari pensando di penalizzare le eccellenze, ma, al contrario, costituisce il contesto educativo nel quale i processi di apprendimento possono svilupparsi efficacemente per tutti, coinvolgendo non solo la mente degli allievi, considerati passivi contenitori da riempire, ma anche gli aspetti affettivi ed esistenziali. “Comprendere equivale a cogliere i nessi: non solo quelli logici, ma anche quelli affettivi, per accedere, infine, a quelli esistenziali. L’apice della comprensione si ha nella partecipazione al senso della vita e dell’esistenza elaborato singolarmente e collettivamente”[4]

Solo un apprendimento significativo e contestualizzato, sviluppato in una dimensione sociale e laboratoriale, può determinare un’attribuzione di senso a ciò che si fa a scuola e, conseguentemente, favorire la tanto auspicata, quanto carente, motivazione. Una dimensione sociale individuata da Vygotskij come indispensabile visto che “le funzioni superiori del pensiero del bambino compaiono inizialmente nella vita collettiva dei bambini sotto l’aspetto della discussione e soltanto dopo conducono allo sviluppo del ragionamento nell’ambito del comportamento del bambino stesso”[5]

Se, quindi, invece di una spiegazione su come calcolare l’area del rettangolo, chiediamo agli allievi di scoprire quanto misura una parete della classe, per sapere quanta pittura serve per dipingerla, creiamo una situazione che li rende attivi nella ricerca di una soluzione ad un problema riferito ad un contesto reale, significativo, che può essere trovata utilizzando diverse modalità. Se poi chiediamo loro di confrontarsi in piccoli gruppi, dopo averci pensato individualmente, strutturando bene il lavoro come previsto nei metodi di apprendimento cooperativo, attiviamo delle dinamiche di interdipendenza positiva e di aiuto reciproco che non solo favoriscono l’apprendimento di tutti, ma consentono anche lo sviluppo di un clima caratterizzato dalla solidarietà e dall’aiuto reciproco, che costituisce la base di una scuola accogliente ed inclusiva. Una scuola dove l’educazione alla cittadinanza si sviluppa nel vissuto delle relazioni quotidiane e nell’esplicitazione dello sviluppo delle competenze sociali come obiettivo prioritario della scuola. Fornendo loro dei materiali idonei a operare concretamente creiamo inoltre le condizioni per mettere in gioco forme di intelligenza diverse da quelle esclusivamente linguistiche e logico-matematiche, solitamente considerate prioritarie, aprendo la strada alla valorizzazione delle diverse abilità.

Il nodo della formazione

Per fare ciò è però necessaria la formazione degli insegnanti, la possibilità di avere qualche compresenza per favorire attività laboratoriali operative e di tutoraggio e la possibilità di acquistare i materiali e le attrezzature necessarie, ma ancor prima sono indispensabili due prerequisiti che potrebbero sembrare banali, se non fosse che la loro assenza spesso inficia gli sforzi di tanti insegnanti che dedicano tutte le loro energie per migliorare le scuole in cui lavorano:

  1. stabilizzazione degli insegnanti precari: non può esserci una scuola efficace ed inclusiva con insegnanti che cambiano sede ogni anno o ogni quattro mesi, senza avere la possibilità di fare una progettazione a lungo termine
  1. stabilizzazione degli edifici: non c’è scuola efficace ed inclusiva dove i soffitti crollano in testa a studenti e insegnanti e dove l’ascensore rotto o l’assenza di un montascale vanifica mesi di lavoro per l’integrazione; si compilano centinaia di pagine di moduli sulla sicurezza, ma se entra acqua da un tetto ci si sente dire che non ci sono soldi per ripararlo

Questo è il momento dell’ormai inevitabile richiamo alla carenza di risorse: ogni progetto, in assenza di risorse umane e materiali, come quella della scuola italiana, rischia di naufragare.

Gli insegnanti, però, consapevoli dell’impossibilità, nelle attuali condizioni di deprivazione della scuola italiana, di raggiungere obiettivi pienamente soddisfacenti, possono comunque provare a fare del proprio meglio, consolidando la propria formazione e collaborando con i colleghi, per non dover affrontare da soli situazioni che richiedono invece l’intelligenza collettiva di una comunità professionale in grado di lavorare in modo cooperativo per elaborare e realizzare insieme progetti tali da facilitare la gestione delle classi e dare a tutti gli allievi la possibilità di apprendere.

 

* Insegnante di sostegno specializzato, Master “Esperto nei processi educativi in adolescenza. Gestione delle difficoltà di relazione, di integrazione culturale e di apprendimento”, già consulente e formatore nell’ambito delle necessità educative speciali per l’Ufficio Scolastico Provinciale di Torino, facilitatore e docente in corsi di formazione relativi a integrazione, didattica inclusiva, contrasto al disagio e alla dispersione scolastica, apprendimento cooperativo, per il Centro Servizi Didattici della Provincia di Torino, autore di Professore… lei è felice?, Aracne Editrice, Roma, 2011 e BES e Inclusione. Bisogni Educativi “Normalmente Speciali”, Edizioni La Tecnica della Scuola, Catania, 2013.


[1]             Associazione Treelle, Caritas Italiana, Fondazione Agnelli, Gli alunni con disabilità nella scuola italiana: bilancio e proposte, Erickson, Trento, 2011, p. 195.

[2]        Berretta C., BES e inclusione. Bisogni Educativi “Normalmente Speciali”, Editrice La Tecnica della Scuola, Catania, 2013.

  1. [3]            Berretta C., Professore… lei è felice?, Per una scuola di tutti: racconti e riflessioni, Roma, Aracne Editrice, 2011.

[4]     Tratto da: inserto della rivista Animazione Sociale n° 254, giugno/luglio 2011, a cura di Ivana Paganotto, “La scuola del comprendere per formare cittadini”, p. 31.

[5]     Vygotskij L. S., Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori, Giunti, Firenze 1974, 2009.

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